Cos’è il collodio umido? Scopri l’antica tecnica fotografica del collodio umido risalente al 1851
Cos’è il collodio umido? Vedo spesso facce interrogative quando dico in giro che faccio fotografie al collodio. È normale. Si tratta di una antica tecnica fotografica ormai in disuso commerciale da circa sessant’anni.
È la terza fra le primissime tecniche fotografiche, presentata nel 1851 dall’inglese Frederick Scott Archer, dopo il dagherrotipo di Louis Daguerre, e il calotipo di William Henri Fox Talbot, entrambi presentati nel 1839.
Come funziona il collodio umido?
La tecnica del collodio umido consiste in un veicolo per la chimica fotosensibile, il collodio, che va steso su una lastra di metallo, di vetro o di altro materiale, e sviluppata prima che questa si secchi.
Il tempo fra la stesura del collodio e lo sviluppo varia da 5-10 minuti in estate a circa 15-20 in inverno.
Fra la stesura del collodio sulla lastra e lo sviluppo ci sono due fasi intermedie: la sensibilizzazione con nitrato d’argento e, ovviamente, lo scatto della foto.
Il collodio umido è un procedimento complesso e lento
Prima di arrivare sul campo a scattare, il fotografo deve preparare una gran quantità di attrezzatura e di materiali di consumo, come lastre di alluminio, di plastica, di vetro, bacinelle e bottiglie, una camera oscura portatile (se si vuol scattare al di fuori del proprio studio), e tutto quel contorno di roba per permettere lo svolgimento dell’intero processo.
La stessa chimica necessaria alla tecnica del collodio richiede una gran quantità di lavoro giorni prima che si inizi a scattare. Vanno preparate tutte le soluzioni necessarie ad arrivare al collodio pronto per l’uso, vanno preparate le soluzioni di fissaggio e di lavaggio, gli acidi e i sali per lo sviluppo delle lastre umide, e tanta altra roba.
Ce ne possiamo rendere conto soltanto a guardare il tavolo del fotografo collodiotipista, che è pieno di bottigliette, bacinelle e accessori per la gestione delle lastre umide.
Come si chiamano le fotografie fatte col collodio umido?
Ferrotipo
È una foto positiva fatta su lastra metallica. Oggi si usa prevalentemente l’alluminio, ma i primi fotografi usavano lastre di latta, che era facile da reperire ed economica. Da qui il termine “ferro” usato per caratterizzare questa tecnica. Negli USA e nel Regno Unito la latta si chiama “tin” per cui oggi il corrispondente termine inglese per ferrotipo è “tintype”.
Il ferrotipo appare come fosse un positivo per via della caratteristica dell’argento di apparire bianco per la luce che viene riflessa da esso contro il fondo nero della lastra.
Ambrotipo
Prende questo nome il collodio umido fatto su lastra di vetro. Un vero ambrotipo viene presentato contro un fondo nero, di solito un velluto nero. In questo modo l’immagine torna ad apparire positiva come nel ferrotipo. Un ambrotipo può essere facilmente scambiato per un semplice negativo di vetro. Anzi, può anche essere usato come tale per la stampa finale su carta alla gelatina d’argento.
Negativo di vetro
Stessa cosa che un ambrotipo ma con densità differente. Al tempo dei primi fotografi, la tecnica di stampa più comune era la carta salata, seguita poi da altre tecniche auto-sviluppanti come la cianotipia, il carbone, il platino, ecc… Queste tecniche richiedono negativi molto contrastati. Per questo motivo un vero negativo di vetro prodotto per una delle antiche tecniche di stampa fotografica deve essere molto più denso e contrastato di un normale ambrotipo. Questo richiede ulteriori passaggi in altri bagni chimici prima di poter finalmente asciugare la lastra.
La verniciatura finale
I fotografi dell’800 avevano clienti che avrebbero trasportato il loro ferrotipo dovunque nel mondo. Usato sia come carta da visita che come ritratto da mostrare ad amici e parenti, il ferrotipo viaggiava con loro, passava di tasca in valigia e quando era a casa stava in ambienti fumosi per via del riscaldamento prevalentemente a carbone usato nelle famiglie altolocate inglesi e francesi dell’epoca.
Il sottile strato di ossido d’argento formatisi nella soluzione colloidale doveva essere protetto in qualche modo. Per questo vennero stabilite delle verniciature a base di resine ed oli essenziali che ne avrebbero protetto la superficie contro gli agenti inquinanti, permesso una moderata pulizia e protetto da graffiature accidentali.
La principale di queste resine era la sandracca, prodotta da un tipo di cipresso africano, mescolata con olio essenziale di lavanda, per rendere meno fragile la resina una volta seccata. Tuttavia venivano usate anche altre resine, come la gommalacca. Oggi abbiamo resine sintetiche acriliche che adempiono allo stesso scopo, usate principalmente nell’ambito della pittura per proteggere i colori sulla tela.
La verniciatura con sandracca o gommalacca richiede grande attenzione, perché la resina è sciolta in alcol e poi stesa sulla lastra. L’alcol evapora da solo ma ci mette molte ore, perché la resina ha una fortissima tensione superficiale. Perciò si accelera questa seccatura riscaldando la lastra su una fiamma libera.
È facile comprendere la pericolosità di tale pratica vista la composizione alcolica della verniciatura finale. Non poche lastre prendono fuoco proprio alla fine, quando tutto il lavoro è quasi finito.
Sebbene affascinante, la verniciatura finale non è oggi così necessaria come un tempo. Le nostre case sono ambienti molto più salubri che le abitazioni dell’ottocento e nessuno si porta più dietro nel portafoglio le lastre al collodio per usarle come fossero un biglietto da visita.
A chi storcerà il naso leggendo questa affermazione rispondo che le stampe alla gelatina d’argento non le verniciamo, eppure durano. Cosa avrebbe da durare meno un collodio seccato su una lastra di alluminio contro una gelatina d’argento stesa su una carta baritata? Pensiamoci. Meno verniciatura, più divertimento.
Come posso mettere in mostra le mie fotografie al collodio?
Sono lastre metalliche, possono stare ritte da sole su uno scaffale, una mensola o un comodino. Possono essere messe su un supporto, come uno zoccolo di legno, oppure anche inquadrate in una cornice tradizionale.
Eviterei di metterci un vetro davanti. A me piace vedere direttamente quello che faccio, senza un vetro tra me e la superficie dell’oggetto. La fotografia chimica o analogica che dir si voglia è artigianalità. Scelgo i miei materiali anche per l’effetto che danno, per la loro superficie, per la loro matericità. Per questo userei una cornice che valorizzi il contatto con chi guarderà l’opera.