Non mi separo mai dalle mie macchine fotografiche. Le porto dappertutto, anche al gabinetto. Non si sa mai cosa può succedere. Puoi pianificare per bene un viaggio, un reportage o una giornata, ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Se uno vuol fare foto, se gli piace, è bene che sia sempre pronto per ogni evenienza.
Per questo quando volo lascio piuttosto in valigia cose necessarie come vestiario di ricambio e toeletta pur di riuscire a portare con me, in cabina, le macchine, che pesano non poco.
Certo, pensandoci per tempo, un cambio, lo spazzolino da denti e i caricabatterie dei telefoni e del Mac sono poco ingombranti e leggeri. E sono molto utili.
Stavolta sono ripartito da Kilis, Turchia, dopo aver dormito veramente poco. Il reportage sulla situazione siriana è stato veramente pesante. Così tutto il necessario per la sopravvivenza, tranne le macchine, è finito in valigia, nella stiva di un aereo che non si sa dove sia in questo momento. Da un ritardo ne è nato un altro e ora mi trovo in un albergo quattro stelle ad Istanbul, con le mie macchine fotografiche, due telefoni e il Mac quasi scarichi, e i soli vestiti che porto addosso da ormai diversi giorni: un paio di calze, una maglietta, una improbabile felpa che va bene fra i profughi ma qui proprio no, i pantaloni ancora sporchi del fango della Siria d’inverno, la giacca Alfa che da tinta unita è diventata mimetica, gli anfibi che sembrano sempre sudici anche dopo che Mustafà me li ha lucidati al bazar di Kilis, il cappello che porto dal giorno della partenza.
A conti fatti, adesso avrei dovuto essere a casa mia, doccia fatta, panni in lavatrice, caldo della stufa. Invece sono in un albergo turco pagato dalla compagnia aerea. Bello! Questo sì, con tutte le comodità. Acqua calda, ben cinque asciugamani, sette saponi diversi, tè in camera, riscaldamento climatizzato, frigo bar, ambiente insonorizzato. Ho diritto alla colazione domattina, ho già avuto il pranzo e la cena presso il ristorante dell’hotel, tutto a spese della compagnia. Pasti caldi e di buona cucina.
Sì, ma sono sempre con i miei panni addosso. Ho fatto la doccia già tre volte, e c’è ancora qualcosa che mi sto portando appresso che non se ne va. Ho lavato il cappellino. Lo sto asciugando con l’impianto di climatizzazione posizionato su 30 gradi. Così i calzini. Ma ancora domattina, rimarrò sempre lo stesso, coi miei soliti panni addosso, doccia fatta ma nient’altro. Mi sento a disagio.
E poi penso a Mohammad, che ha diviso con me la sua zuppa, l’altro giorno, nella sua tenda, al campo di Azaz. Fuori un freddo da neve. Dentro solo due candele per illuminare l’ambiente e una coperta a testa per scaldarsi. Stavo steso sopra dei tappeti fradici d’acqua perché i pavimenti delle tende non sono impermeabili alla pioggia.
Mohammad è scappato con la sua famiglia verso il confine perché la sua casa è stata bombardata. Ora non c’è più. Sono scappati di casa con i panni che avevano allora e che hanno addosso tutt’ora. Niente più. La differenza è che non si trovano in un hotel a quattro stelle, non hanno il riscaldamento, l’acqua corrente, la possibilità di cambiarsi. La loro situazione è statica. Va avanti così da tre mesi e per quanto sia dato di sapere, non se ne conosce la fine. Sempre coi soliti panni addosso, sotto una tenda da campo, a mangiare il rancio del campo. Preparato sì con la massima cura dai volontari, ma non certo paragonabile al pasto caldo di un ristorante. Se vogliono lavare un vestito, devono fare i conti con l’acqua che manca, la pioggia che non lo fa asciugare, un cambio che può non essere arrivato dagli aiuti umanitari.
Questa è la vita dei profughi siriani in Siria, inverno 2012.
Ma anche in Italia, adesso, ci sono ancora famiglie che non hanno più una casa, perché l’hanno persa col terremoto, come quello de L’Aquila, tanto per fare un esempio. Gente che vive ancora dentro i container o poco più, con l’umidità che filtra da tutte le parti, la pioggia e il freddo che entrano come se nulla fosse. Anche loro in una situazione statica a tempo indeterminato.
E voglio concludere con la donnina del porto Est di Istanbul. Me ne sono accorto dopo un po’ che ero già sull’autobus che mi avrebbe riportato in hotel, verso le cinque e mezza. Avrei voluto restare fino a tardi in centro ma tirava un vento così freddo che ho iniziato ad avere mal di testa. Non è servito neanche ripararsi in un caffè, ché il calore del locale non mi è stato sufficiente. Ho dovuto rivoltare e tornare all’autobus.
Quando la vedo. Proprio davanti al mio finestrino. Seduta a terra, con delle casse d’acqua attorno, due stampellacce di legno, una coperta che si aggiustava di continuo addosso. La gente passava e non si curava. Lei guardava un po tutti, con un viso dolce, quasi sorridente. Non ha chiesto nulla per tutto il tempo che sono rimasto in attesa della partenza del bus. Continuava a guardare a destra e a sinistra, ogni tanto si soffermava a guardare nel vuoto, tre metri davanti a sé. Ho preso alcune foto. Non si è accorta di me. Poi l’autista ha messo in moto. L’autobus ha cominciato a vibrare tutto. Mentre ci stavamo muovendo ho visto la donnina diventare seria e portarsi le mani a coprire il volto, e gettarsi a terra di faccia, in avanti. E’ rimasta così, mentre il nostro autobus gran turismo si allontanava dal molo di Istanbul.
Michele Pero, di ritorno dal reportage in Siria.